Sono state recentemente depositate davanti al tribunale di Milano alcune relazioni medico legali nelle quali i periti nominati dai giudici hanno preso posizione su alcuni aspetti concernenti la responsabilità del Ministero della salute.
Tra queste relazioni è particolarmente significativa quella depositata il 29 aprile 2011 dal Prof. Riccardo Zoia dell’Istituto di medicina legale di Milano, che si è occupato di due importanti problematiche concernenti il contagio post-trasfusionale: la data di conoscenza dell’epatite B e la possibilità di prevenire l’epatite C utilizzando le misure preventive per l’epatite B.
E’ bene precisare, in via preliminare, che le trasfusioni oggetto della consulenza erano state effettuate nel febbraio 1972 (e quindi in una data che secondo il Ministero della salute non darebbe diritto a risarcimento del danno).
Per quanto concerne la scoperta dell’epatite B, il Prof. Zoia osserva innanzi tutto che l’identificazione dell’epatite B è stata “una acquizione che … ha vissuto una evoluzione composta da piccoli passi successivi tutti indirizzati verso la qualificazione e la soluzione del problema“.
Il Prof. Zoia aggiunge che “nel periodo della seconda guerra mondiale si realizzò con estrema chiarezza la correlazione tra vaccinazioni eseguite per via iniettoria (militari impegnati in campagne in territori insalubri) e lo sviluppo di patologie epatiche acute che, in taluni casi, ebbero carattere di vera e propria epidemia. Subito dopo la seconda guerra mondiale (1947) si iniziò a comprendere che queste forme di infezione epatica non erano tutte analoghe e che si trattava di malattie diverse: si iniziò ad utilizzare la classificazione delle epatite mediante lettere alfabetiche (A per la forma acquisita mediante alimenti contaminati, B per la forma trasmessa mediante contatto con sangue o liquidi biologici infetti“.
Il Prof. Zoia prosegue rilevando che “nel 1963 si verificò una scoperta destinata ad indurre sulla strada maestra dell’identificazione patologica quando Blumberg scoprì la reazione del sangue di un emofilico americano con quello di un aborigeno dell’Australia individuando, quindi, quello che definì Antigene Australia (Antigene Au); questo, nel volgere di breve tempo (1966) fu dimostrato essere l’espressione di un agente infettivo“.
Il Prof. Zoia quindi conclude che “nel 1967 si poteva avere certezza che l’antigene Au era presente nel sangue della maggior parte dei pazienti con epatite e che il sangue di trasfusioni contenente antigene Au trasmetteva la malattia“.
Come ho anticipato, il Prof. Zoia si è espresso anche in merito alla “possibilità di prevenzione dell’infezione da virus C con l’adozione delle misure preventive all’infezione da virus B“.
Il Prof. Zoia osserva innanzi tutto che anche in epoca precedente all’individuazione del virus C “vi era precisa percezione del fatto che si rendesse necessaria una forma accurata di vigilanza a fini preventivi, fondata sell’esperienza e sulla verifica epidemiologica. Una elevata ipertransaminasemia del donatore, positività per la presenza di anticorpi contro il virus B (quando fu identificato), ad esempio, rientrarono tra i fattori di rischio da considerare anche per quella che, all’epoca, era definita come epatite virale non A non B. La riprova di queste considerazioni sta proprio nelle attività normative che, anche nella legislazione italiana, furono indirizzate a codificare le misure note atte ad evitare, per quanto possibile, il contagio da trasfusione di sangue“.
Tra queste disposizioni il Prof. Zoia cita le seguenti:
a) la legge 14 luglio 1967 n. 592, che impartiva regole specifiche atte ad individuare alcune categorie inidonee alla donazione di sangue (“persone che erano state affette da epatite virale, da alcolismo, da intossicazioni da stupefacenti o altre malattie ritenute pericolose per quel rischio, coloro che erano stati sottoposti ad intervento chirurgico negli ultimi sei mesi o avessero in quel periodo subito trasfusioni di sangue, plasma o fibrinogeno e altri derivati del sangue, coloro che avevano avuto contatti con epatitici negli ultimi sei mesi“);
b) la circolare della Direzione generale dei servizi di igiene pubblica n. 95 del 9 giugno 1970, “nella quale si precisava l’opportunità di ricerca dell’antigene Australia (oltre alla valutazione delle transaminasi) ai fini profilattici di epatiti post trasfusionali“.
Il prof. Zoia osserva anche che “da quel momento le disposizioni normative sono andate costantemente affinandosi parallelamente al progresso delle conoscenze“.
Fatte queste premesse, l’ulteriore passo compiuto dal Prof. Zoia è quello di verificare se nel febbraio 1972, epoca delle trasfusioni oggetto della consulenza, ci fossero “misure idonee a prevenire il contagio“.
L’opinione del Prof. Zoia, sul punto, è molto chiara: “le conoscenze già raggiunte e gli studi esperienziali avevano identificato elementi operativi che, indubbiamente, rappresentavano misure valide per la prevenzione del rischio di contagio“.
E pur evidenziando come non si tratti di “misure in grado di annullare il rischio di trasmissione … è certo che la mancata adozione delle misure note … ebbe a rappresentare all’epoca un rilevante incremento del verificarsi del rischio di trasfusione, in un paziente, di sangue o emoderivati contagianti“.
Considerazioni che confermano ancora una volta come la tesi ministeriale secondo la quale una responsabilità dello Stato potrebbe configurarsi, al massimo, dal 1978 in poi sia priva di fondamento non solo giuridico ma anche medico legale.
Considerazioni, infine, che saranno particolarmente utili qualora il Ministero della salute decidesse di escludere dalle transazioni coloro che si sono contagiati prima di questa data.
Alberto Cappellaro