Con sentenza n. 15453 del 14 luglio 2011 la terza sezione civile della Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sui contagi da epatite C post-trasfusionale.
La Corte ha innanzi tutto ribadito alcuni concetti, già espressi in recenti pronunce, che ormai si possono considerare consolidati: in particolare, che una domanda risarcitoria non può essere rigettata per il solo fatto che le trasfusioni (nel caso di specie: del 1986) sono state effettuate in un momento nel quale “non era ancora avvenuta … la individuazione dal punto di vista sierologico del virus responsabile dell’epatite C“.
Nella pronuncia la Corte afferma anche che la responsabilità del Ministero della salute “non esclude affatto quella … a carico della struttura e dei medici, a carattere … contrattuale ex art. 1218 e 1228 c.c.“.
Nel caso di specie non poteva infatti “affatto escludersi la mancanza di diligenza da parte del personale sanitario che ha dato luogo a dette trasfusioni“, avendo la corte di appello “trascurato la rilevante circostanza che, indipendentemente dalla specifica conoscenza (sulla base dei dati scientifici dell’epoca), del virus HCV, ben poteva detto personale, sulla base di più datati parametri scientifici, rilevare comunque la non idoneità del sangue ad essere oggetto di trasfusione“: un dovere derivante tra l’altro anche da numerose disposizioni di legge e regolamentari, vigenti all’epoca dei fatti.
Alberto Cappellaro