Con la recentissima sentenza n. 19985 del 30 settembre 2011 la terza sezione civile della Corte di cassazione ha affermato che le pronunce definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sono vincolanti anche per il giudice italiano.
Si tratta, in particolare, delle pronunce nelle quali la Corte europea chiarisce come devono essere interpretati gli articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ed eventualmente se una o più norme nazionali contrastino con una o più disposizioni di tale convenzione.
In via preliminare, la Corte ha innanzi tutto ribadito “l’immediata rilevanza nel nostro ordinamento delle norme della suddetta Convenzione … e … l’obbligo per il giudice dello Stato di applicare direttamente la norma pattizia …, anche quando essa non sia conforme al diritto interno, alla sola condizione che la sua interpretazione superi il doveroso controllo secundum constitutionem”.
Ne consegue che il giudice italiano “non può ignorare, nella controversia che è chiamato a decidere, l’interpretazione che delle norme pattizie viene data dalla Corte di Strasburgo“, in considerazione del fatto che la Corte è “il più autorevole interprete” della CEDU.
La Cassazione evidenzia anche come i beni protetti dalla Convenzione e quelli garantiti dalla nostra Costituzione siano in gran parte coincidenti e per questo motivo attribuisce alle norme della CEDU la natura di elemento costitutivo dell’ordine pubblico italiano, con la conseguenza che esse vincolano gli organi dello Stato quando adottano un provvedimento o un atto di loro competenza (sia esso normativo, amministrativo o giudiziario).
Chiariti questi principi di carattere generale, la Cassazione affronta nello specifico “la problematica degli effetti nell’ambito interno delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo“.
Il giudice italiano deve innanzi tutto verificare se la sentenza di Strasburgo è definitiva: condizione che secondo l’art. 44 CEDU si verifica se la pronuncia è stata emessa dalla “Grande Camera” ovvero quando, se emessa da una Camera “Semplice”:
a) la sentenza non viene impugnata avanti alla Grande Camera entro tre mesi;
b) le parti dichiarano che non intendono impugnarla avanti alla Grande Camera;
c) la Grande Camera respinge l’impugnazione.
Una volta che è definitiva, la sentenza della Corte di Strasburgo acquisisce una forza assimilabile alle sentenze italiane passate in giudicato ed ha quindi valore di legge tra le sole parti tra le quali è stata pronunciata.
Il giudice nazionale, però, è organo interno di uno Stato che si è impegnato ad osservare e ad applicare la CEDU e, conseguentemente, anche l’interpretazione che ne dà la Corte di Strasburgo: egli ha quindi “l’obbligo … di non contraddire la statuizione contenuta nella sentenza della Corte europea“, in modo che l’interpretazione che la Corte dà di una certa norma (o del rapporto di una certa norma convenzionale con una nazionale) non rimanga “senza effetto nell’ambito interno“.
La decisione definitiva di Strasburgo ha pertanto una “ovvia ricaduta sulla situazione che in simile ipotesi il giudice è chiamato ad affrontare, in quanto presupposto logico-giuridico delle relative problematiche che quel giudice è chiamato a risolvere“.
Le affermazioni contenute nella sentenza qui esaminata potrebbero essere di grande utilità nella vicenda concernente l’art. 11 co. 13 del d.l. 78/2010, convertito con l. 122/2010, che ha stabilito che l’indennizzo ex lege 210/92 non deve essere rivalutato per intero.
Qualora infatti la Corte costituzionale (come ovviamente non mi auguro) dovesse ritenere tale norma legittima e la Corte di Strasburgo dovesse giudicarla invece contraria ad una o più norme della CEDU, sarebbe ben difficile per il giudice interno non tener conto della pronuncia di Strasburgo, pena il sostanziale svuotamento dell’efficacia della Convenzione e la conseguente responsabilità dello Stato italiano, che tale convenzione si è impegnato ad attuare.
Alberto Cappellaro