Con sentenza n. 470 del 28 marzo 2012 il Tribunale di Ancona ha condannato il Ministero della salute a versare circa 840 milioni euro, oltre interessi e detratto l’indennizzo una tantum capitalizzato, agli eredi di una danneggiata da epatite post-trasfusionale, contagiata nel novembre 1969 e successivamente deceduta a causa delle complicanze della malattia.
Anche in questa sentenza il Tribunale ricorda che all’epoca delle trasfusioni erano già vigenti norme che imponevano al Ministero della salute “obblighi … di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo” del sangue utilizzato a scopi terapeutici: così ad esempio l’art. 1 della l. 296/58 e gli artt. 1 e 20 della legge 592/67.
Il Tribunale evidenzia inoltre come alla fine degli anni ’60 fosse noto “il rischio di trasmissione di epatite virale” mediante sangue ed emoderivati: ed infatti “sin dalla metà degli anni ’60 erano … esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT – indicatori della funzionalità epatica – fossero alterati rispetto ai limiti prescritti”.
Ne consegue, secondo il Tribunale, che seppure “nel 1969 non erano disponibili sistemi di rilievo del virus C dell’epatite, essendo stato detto virus isolato nel 1989, ed essendo divenuto possibile testare gli anticorpi anti C nel siero dei pazienti infetti soltanto dopo tale data, tuttavia all’epoca qui di rilievo da un lato era già noto il rischio di contrarre malattie epatiche per via ematica mediante trasfusioni; dall’altro era possibile testare il sangue per evidenziare l’epatite analizzando (non direttamente il virus infettante, ma indirettamente) i livelli di transaminasi e di generica infiammazione epatica …, cosicché era già presente la capacità tecnico scientifica di diagnosticare malattie epatiche dal materiale ematico, per individuare l’eventuale patologia epatica del donatore”.
Ringrazio il Dottor Vincenzo Martire per la segnalazione.
Alberto Cappellaro