Con sentenze n. 581/08 e 576/08, le sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che “il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre … dal momento in cui la malattia … viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento” del terzo, “usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto”delle conoscenze scientifiche esistenti al momento della scoperta della malattia, conoscenze da rapportare non al soggetto leso, o comunque all’uomo medio, ma ai sanitari “cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi)” la persona contagiata.
A tal fine, occorre effettuare una “rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare”, per verificare se esse erano idonee a consentire “una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti)”.
Il giudice deve quindi procedere “ad un’accurata disamina, puntualmente motivata, … della diligenza che ha contrassegnato l’atteggiamento della vittima a fronte della sua sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle particolarità della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima nell’accedere alle informazioni necessarie per risalire dalla malattia esteriorizzatasi, alle sue cause e, infine, al responsabile del danno”.
Disamina che presupporrebbe una attenta valutazione di tutte le circostanze del caso concreto.
I giudici, invece, inclusi talvolta quelli di legittimità, si limitano sovente ad affermare, in maniera acritica, che la prescrizione non possa decorrere da un momento successivo al deposito della domanda di indennizzo ex lege 210/92: tale deposito, infatti, rappresenterebbe una insuperabile prova circa la consapevolezza sia dell’origine trasfusionale della malattia, sia dell’imputabilità di tale patologia ai mancati e/o insufficienti controlli ministeriali sul sangue o sugli emoderivati, consapevolezze idonee a far decorrere il termine di prescrizione.
Nelle rare ipotesi in cui si esaminano accuratamente le circostanze del caso concreto, lo si fa allo scopo di giustificare una decorrenza della prescrizione anteriore al deposito della domanda di indennizzo.
Tale conclusione viene motivata enfatizzando la storia clinica del danneggiato e, ove siano documentati, dopo la diagnosi dell’epatite, frequenti e ripetuti ricoveri e/o accertamenti clinici, se ne deduce che il malato debba necessariamente aver avuto consapevolezza, nel corso e a causa di tali cure, dell’origine trasfusionale della patologia, consapevolezza inidonea, come si è visto, a far decorrere la prescrizione.
Con sentenza n. 383 del 21 gennaio 2013 la Corte di appello di Roma ha fatto invece applicazione dei principi statuiti dalle sezioni unite in senso favorevole al danneggiato, confermando la condanna risarcitoria pronunciata dal Tribunale di Roma nel precedente grado di giudizio.
In realtà, il Tribunale aveva riconosciuto il risarcimento applicando un termine decennale di prescrizione, fatto decorrere dalla domanda di indennizzo, presentata nel 1995, mentre la causa era iniziata nel 2004.
La Corte ribadisce che la prescrizione, “quinquennale ai sensi dell’art. 2947 I comma c.c.”, inizia a decorrere dalla data della domanda ex lege 210/92, in quanto la proposizione di tale domanda comporta, di norma, “conoscenza o conoscibilità, in capo al danneggiato, del nesso causale tra l’epatite e la pregressa trasfusione”.
L’aver domandato l’indennizzo, però, “non può automaticamente interpretarsi quale conoscenza certa, acquisita ed indubbia, del nesso causale tra epatite e trasfusioni”.
Conoscenza che, nel caso di specie, secondo la Corte poteva ragionevolmente escludersi, tenuto conto della storia clinica del danneggiato.
Le trasfusioni cui quest’ultimo si era sottoposto nel 1981, infatti, si erano rese necessarie per far fronte ad una gravissima compromissione della funzionalità epatica, compromissione dovuta però non all’epatite, ma ad una patologia diversa e pregressa, la leucoencefalite virale acuta.
Pertanto quando i genitori del malato, all’epoca minorenne, avevano domandato l’indennizzo, avrebbero potuto rappresentarsi come possibile causa dell’epatite non solo le trasfusioni, ma anche la patologia pregressa, che le aveva rese necessarie.
La certezza circa l’origine trasfusionale dell’epatite poteva invece considerarsi acquisita solo al momento della comunicazione del verbale, con il quale la competente Commissione medico ospedaliera (C.M.O.) aveva accolto la domanda di indennizzo, verbale tra l’altro adottato dalla Commissione con l’esplicito dissenso di uno dei suoi tre componenti, un “dissenso … che denota ancor più la oggettiva difficoltà, per l’uomo di media diligenza, di acquisire informazioni certe sul nesso causale”.
La pronuncia qui commentata, ben motivata, pur rimanendo nel solco dei principi delle sezioni unite, principi che andrebbero comunque rimeditati, li applica in maniera ponderata, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.
Ringrazio Sabrina Cestari per la segnalazione.
Alberto Cappellaro