Una cliente dello studio, contagiatasi a seguito di trasfusioni subite a novembre del 1975, citava la struttura sanitaria che aveva provocato il danno.
Il Tribunale di Novara rigettava la domanda in quanto a suo giudizio, all’epoca delle trasfusioni, non era noto il virus HCV e non esistevano controlli adeguati, praticabili sui donatori, per individuare l’agente virale nel sangue somministrato.
La sentenza veniva impugnata avanti alla Corte di appello di Torino la quale, con sentenza n. 515/2014, ha condannato la struttura a corrispondere alla cliente 300.616,00 euro, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al saldo e oltre alle spese del giudizio.
Accogliendo integralmente le tesi esposte negli atti difensivi, la Corte osserva innanzi tutto che il dovere di controllare che il sangue utilizzato per scopi terapeutici sia esente da virus e che i donatori non presentino alterazioni nelle transaminasi “deriva dall’adempimento degli obblighi specifici posti dalle fonti normative speciali esistenti fin dal 1967”, aggiungendo che “non è lo stato della conoscenza scientifica sullo specifico virus HCV e la possibilità, in concreto, di prevederne e prevenirne la presenza nel sangue e negli emoderivati che rileva per la valutazione dell’illecito ipotizzato, ma l’esistenza di normativa atta a regolare, coordinare e controllare la raccolta, la preparazione, la conservazione e la distribuzione del sangue umano, nonché la preparazione dei rispettivi derivati, esistente almeno dal 1967”.
Normativa che, se “fosse stata rispettata, avrebbe garantito che tutte le possibilità conosciute all’epoca per scongiurare la trasmissione di infezioni veicolate dal sangue, pur se ancora non specificatamente individuate, fossero in concreto poste in essere”.
Considerato che la responsabilità della struttura ha pacificamente natura contrattuale, la Corte evidenzia come spetti alla struttura medesima “provare o che l’inadempimento prospettato non vi è stato, o che, pur esistente, non è imputabile o non è stato nella fattispecie causativo del danno”, inadempimento che, nel caso di specie, non era contestato, quanto all’avvenuto ricovero, ed era stato oggetto di CTU medica, quanto al nesso causale.
La struttura avrebbe quindi dovuto dimostrare di aver eseguito con diligenza e perizia le prestazioni di cura, comprensive della trasfusione, nonché di poter garantire la c.d. tracciabilità dei donatori.
Orbene, in relazione a tale ultimo punto, “né nella documentazione allegata dalla struttura, né da quella esaminata dal CTU dott. Magliona emerge nulla che permetta di comprendere come si presentavano le sacche di sangue o di emoderivati utilizzate per le trasfusioni, quale era la loro provenienza, chi era il donatore e quali accertamenti erano stati effettuati”, al contrario il sangue e gli emoderivati utilizzati “non risultano in alcun modo tracciati, nonostante vi fosse già, a partire quantomeno dal DPR n.1256/71, l’obbligo di effettuare controlli sui donatori per individuare possibili affezioni epatiche“.
La Corte aggiunge che la struttura “doveva essere ben consapevole, nel 1975, della pericolosità insita nell’utilizzo di sangue umano, essendone già all’epoca notoria in ambito medico e scientifico la potenzialità veicolante di virus idonei a provocare patologie epatiche”.
Va infine evidenziato che la controparte aveva eccepito la compensazione dell’indennizzo ex lege 210/92 percepito dalla danneggiata, richiesta che la Corte non ha però accolto.
Infatti, pur evidenziando che sarebbe pienamente condivisibile l’orientamento che detrae l’indennizzo dalle somme corrisposte a titolo risarcitorio, la Corte osserva che, per poter applicare lo scorporo, è “necessario che sia dimostrata l’effettiva corresponsione dell’indennizzo stesso, o che questo sia quantomeno determinato o determinabile nel suo preciso ammontare”, onere che grava su chi eccepisce la compensazione mentre, nel caso di specie, non solo non vi era, in atti, “prova alcuna di quanto l’appellante abbia percepito effettivamente a titolo di indennizzo”, ma neppure “sono state proposte, al riguardo, tempestive istanze istruttorie da parte dell’appellata, che avrebbero potuto facilmente essere formulate e la cui mancanza non può essere supplita dall’attivazione di poteri d’ufficio”.
Alberto Cappellaro