Con sentenza n. 6222/2016 la Corte di cassazione ha preso posizione su quale sia il grado di probabilità sufficiente a concludere per la sussistenza del nesso causale tra trasfusioni e malattia.
La Corte di appello aveva rigettato la domanda perché il predetto nesso “non risultava accertato secondo un criterio di elevata probabilità”, tenuto conto della “ampiezza dell’intervallo cronologico tra la trasfusione … e la prima positività virale”, del “fatto che entrambi i genitori della A. fossero anch’essi positivi al virus HCV, nella circostanza che la medesima A. avesse donato sangue all’AVIS … (venendo sottoposta alla ricerca di anticorpi B e non A e non B, con esito negativo)” e dei “numerosi interventi dentari protesici e ricostruttivi subiti” dalla danneggiata.
La ricorrente aveva censurato questo ragionamento in quanto la Corte aveva “applicato il criterio penalistico della elevata probabilità anziché la regola del ‘più probabile che non’ operante in ambito civilistico”, dolendosi altresì del fatto che era “stata ‘irragionevolmente’ sottovalutata la causa principale del contagio per sopravvalutarne altre, senza considerare che ‘la relazione probabilistica… tra la trasfusione eseguita … e il contagio era assai più alta rispetto a tutte le altre ipotesi”.
Doglianza che la Cassazione ha ritenuto fondata, la Corte di appello ha infatti errato “quando ha proceduto all’accertamento sul nesso causale alla stregua del criterio (penalistico) della ‘elevata probabilità’ anziché in base al criterio – da applicare in ambito civile – della preponderanza dell’evidenza, che avrebbe potuto condurre a diversa conclusione (giacché la rilevata disomogeneità dei fattori eziologici, ritenuta non sufficiente a concretizzare un giudizio di elevata probabilità, potrebbe comunque consentire di pervenire ad una conclusione “più probabile che non”)”, con conseguente invito a “procedere a nuovo esame della vicenda alla stregua del corretto criterio causale della preponderanza dell’evidenza (“più probabile che non”)”.
Alberto Cappellaro