Con sentenza n. 6589 del 25 maggio 2016, resa in un caso da noi patrocinato e non impugnata in appello dal Ministero della salute, il Tribunale civile di Milano ha condannato l’Amministrazione a corrispondere, ai parenti di una danneggiata contagiata a gennaio 1972 e successivamente deceduta a causa dell’aggravamento della patologia, la “complessiva somma di € 325.000,00 oltre interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo”.
Il giudice ha evidenziato come “deve ritenersi che sussista la responsabilità del Ministero per l’illecito aquiliano dedotto” in giudizio, considerato che l’Amministrazione, “nell’ambito dei suoi poteri di direttiva, vigilanza e controllo in ordine alla pratica trasfusionale, omise di adottare” le precauzioni allora disponibili, ovvero la “rigorosa selezione dei donatori” nonché l’obbligo “di eseguire il dosaggio delle transaminasi utili ad intercettare una quota significativa di donatori infetti da HCV”, potendosi così concludere che l’epatite contratta dalla danneggiata, successivamente evoluta in epatocarcinoma, “sia stata con elevato grado di probabilità razionale prodotta dalla violazione dei predetti obblighi … e dalle conseguentemente elevate probabilità che il sangue trasfuso fosse infetto”.
Con riferimento alle indagini anamnestiche il giudice ha rilevato “che il regolamento di esecuzione della legge 592/67 (D.P.R. 1256/71) stabiliva a riguardo parametri molto lassi”, pur essendo “già chiara all’epoca l’esistenza di una correlazione tra frequenza di EPT ed alcuni aspetti inerenti le condizioni economiche e i costumi sociali dei donatori con particolare riferimento alle abitudini sessuali e all’eventuale dedizione alle droghe”, non solo, “un’esplicita indicazione ad escludere soggetti ad alto rischio compare solo nel D.M. 14 e 15 gennaio 1988”.
Non vi è quindi “dubbio che sotto tale profilo il Ministero abbia tardato a definire i criteri di esclusione della donazione che avrebbe comportato verosimilmente una diminuzione dei casi di contagio”.
Con riferimento invece ai test di selezione dei donatori secondo il giudicante è “sufficiente fare riferimento al dosaggio delle transaminasi (ALT o SGPT). Tenuto conto che la trasmissione del virus avveniva attraverso donatori inconsapevoli, poiché clinicamente asintomatici dei quali almeno la metà aveva transaminasi elevate, l’impiego sistematico di tale esame pre-donazione avrebbe consentito di individuare tutti i portatori dell’agente infettivo, con l’esclusione dei portatori sani e di soggetti con infezione recentissima. Con l’utilizzo sistematico di questa semplice indagine almeno il 50% dei donatori infetti avrebbe potuto essere intercettato e pari percentuale di EPT scongiurata”: misura, però, che “non fu mai ufficialmente introdotta in Italia sino al 1990, esistendo sul punto solo una circolare ministeriale n. 50 del 28.3.66 che prescriveva la determinazione sistematica e periodica delle transaminasi dei donatori senza che tuttavia fossero seguite misura cogenti per garantirne il rispetto”.
Il giudice ha rilevato, inoltre, come la responsabilità possa “agevolmente ricavarsi nell’omissione, da parte del Ministero, dei controlli, consentiti dalle conoscenze mediche e dei più datati parametri scientifici del tempo, sull’idoneità del sangue ad essere oggetto di trasfusione (tra le altre: Cass. 14 luglio 2011, n. 15453; Cass. 30 agosto 2013, n. 19995), in epoca anche anteriore alla più risalente delle scoperte dei mezzi di prevenibilità delle relative infezioni, individuabile nel 1978. Il suddetto orientamento consente di ritenere ormai superata la pronuncia di questa Corte del 31 gennaio 2013, n. 2250 … con la quale era stata esclusa, senza la necessità di ulteriori accertamenti da parte del giudice del merito, la ricorrenza di una ‘regolarità causale’ tra il mancato controllo da parte del Ministero ed i contagi anteriori al 1978”, richiamando testualmente la recentissima pronuncia della Cassazione n. 2232/2016.
Premesso che la CTU espletata in giudizio aveva accertato il nesso di causa tra le trasfusioni e il contagio da HCV nonché tra l’evoluzione di quest’ultimo il decesso, il Tribunale ha, pertanto, liquidato in favore dei congiunti “il danno non patrimoniale … costituito dalla perdita del rapporto parentale costituzionalmente garantito”.
Nei confronti di alcuni soggetti, e tra questi i fratelli della deceduta, il predetto rapporto, “alla stregua delle allegazioni di parte, … deve ritenersi presuntivamente provato”.
La pronuncia però si segnala per aver riconosciuto tale danno anche in favore dei nipoti della vittima tenuto conto, da un lato, “della concreta intensità del vincolo”, come era stato da noi dimostrato nel corso del giudizio, dall’altro “del fatto incontestabile che in linea generale la perdita dei nonni rappresenta un evento del tutto naturale, soprattutto quando non è violento ed improvviso ma sopravviene dopo una lunga malattia, e che la lesione è da ritenersi superabile in tempi brevi dai bambini di età prescolare”.
Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari