Accettazione tacita dell’eredità: principi generali e giurisprudenza di legittimità


L’articolo 474 del codice civile dispone che l’accettazione dell’eredità “può essere espressa o tacita”.

L’articolo 475 c.c. precisa che “l’accettazione è espressa quando, in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato all’eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede”.

Secondo l’articolo 476 c.c. l’accettazione è invece tacita “quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede”.

Con sentenza n. 4843/2019 la Suprema Corte chiarisce quando, secondo la dottrina e la giurisprudenza, possa configurarsi una accettazione tacita dell’eredità.

A tal fine occorre, innanzi tutto, la “consapevolezza, da parte del chiamato, dell’esistenza di una delazione in suo favore”. Il chiamato, inoltre, deve assumere “un comportamento inequivoco, in cui si possa riscontrare sia l’elemento intenzionale di carattere soggettivo (c.d. animus), sia l’elemento oggettivo attinente all’atto, tale che solo chi si trovi nella qualità di erede avrebbe il diritto di compiere”.

Con la pronuncia sopra citata la Cassazione evidenzia, altresì, come, “ai fini della accettazione tacita dell’eredità sono privi di rilevanza” tutti quegli atti che costituiscono “adempimenti di prevalente contenuto fiscale, caratterizzati da scopi conservativi” e, come tali, inidonei “ad esprimere, in modo certo, l’intenzione univoca di assunzione della qualità di erede”.

Esempi di tali atti sono “la denuncia di successione, il pagamento delle relative imposte, la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione” (così Cass. 4843/2019, cit.).

L’acquisizione della qualità di erede è l’effetto, invece, del compimento “di un’attivitàincompatibile con la volontà di rinunciarvi, ovvero di un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l’eredità secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo di agire di una persona normale” (Cass. 14499/2018).

Così ad esempio costituisce principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità che la predetta volontà “può reputarsi implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che essendo intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o ai danni per la mancata disponibilità di beni ereditari – non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 c.c., ma travalichino il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, e che, quindi, il chiamato non avrebbe diritto di proporre se non presupponendo di voler far propri i diritti successori” (Cass. 6907/2019).

A tal proposito Cass. 4843/2019 indica, esemplificativamente, le azioni di rivendicazione, riduzione, risoluzione o di rescissione di un contratto concluso dal de cuius, di divisione ereditaria e la riassunzione di un giudizio già intrapreso dal proprio dante causa o la rinuncia agli effetti di una pronuncia ottenuta da quest’ultimo.

Si possono altresì ricordare, sempre senza pretesa di completezza:

– l’azione diretta ad accertare la nullità di determinati atti di disposizione del de cuius al fine di sottoporre i relativi beni a collazione (Cass. 6907/19, cit.);

– la ricezione, da parte del chiamato all’eredità, del pagamento dell’indennità per il passaggio coattivo su un fondo servente del de cuius, giudizialmente determinata in una controversia della quale sia stato parte lo stesso chiamato, trattandosi di comportamento che incrementa, e non soltanto conserva, il patrimonio ereditario (Cass. 14499/2018, cit.);

– l’azione, proposta dagli eredi, per conseguire l’equa riparazione per l’eccessiva lunghezza di un giudizio promosso dal loro dante causa (Cass. 868/2017);

– il ricorso alla Commissione Tributaria contro l’avviso di accertamento del maggior valore dell’imposta di successione versata dal chiamato, inclusa l’eventuale successiva stipulazione di un concordato per la definizione della controversia (Cass. 22017/2016).

La qualità di erede, peraltro, si può acquisire anche a seguito del compimento, o del mancato compimento, di atti giuridici, nonché della stipulazione di negozi aventi ad oggetto beni ereditari.

Una prima ipotesi che rientra in tali ultime categorie è costituita dal possesso dei beni ereditari, cui sia seguita la mancata redazione dell’inventario e/o la mancata rinuncia all’eredità nei termini previsti dalla legge.

Questa fattispecie è disciplinata dall’articolo 485 c.c..

Secondo il primo comma della norma citata “il chiamato all’eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità”.

Il successivo comma prevede invece che “trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice”.

Il terzo comma della disposizione qui esaminata aggiunge che, compiuto l’inventario, il chiamato che non abbia ancora accettato con beneficio “ha un termine di quaranta giorni da quello del compimento dell’inventario … per deliberare se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia deliberato, è considerato puro e semplice”.

Per quanto concerne questa fattispecie, Cass. 4456/2019 evidenzia come “questa Corte spiega da tempo che il possesso dei beni ereditari previsto dall’art. 485 c.c. … non deve necessariamente riferirsi all’intera eredità, essendo sufficiente il possesso di un solo bene deve manifestarsi in una attività corrispondente all’esercizio della proprietà dei beni ereditari, esaurendosi in una mera relazione materiale tra i beni ed il chiamato all’eredità, e cioè in una situazione di fatto che consenta l’esercizio di concreti poteri su beni, sia pure per mezzo di terzi detentori, con la consapevolezza della loro appartenenza al compendio ereditario”.

Ulteriormente, Cass. 15530/2017 chiarisce come il bene oggetto del possesso debba avere “un qualche rilievo economico”; inoltre, che “il possesso può essere conseguito anche successivamente all’apertura della successione”; è altresì irrilevanteun eventuale rilascio del possesso”; infine, “è sufficiente che il chiamato abbia posseduto il bene anche per un solo giorno”.

Conseguentemente, attribuisce la qualità di erede l’aver “condiviso l’abitazione della famiglia con gli altri chiamati … per un tempo limitato“, anche se unicamente “in occasione di festività e ferie“, così come l’aver posseduto, parimenti per un tempo limitato, il “letto e … alcuni effetti personali del de cuius” (Cass. 4456/2019, cit.).

Ulteriormente, “deve reputarsi costituire esercizio del possesso … il solo ritiro dell’autovettura appartenente al de cuius dall’autolavaggio ove si trovava al momento della morte e la sua successiva collocazione in sosta, trattandosi comunque di condotta che assicura alla parte la conservazione dei suddetti poteri di amministrazione e disposizione … a nulla rilevando la circostanza che poi l’autovettura sia stata lasciata incustodita in luogo pubblico, posto che tale condotta, oltre a non rivelarsi inidonea a dismettere il possesso nel senso sopra indicato, farebbe in ogni caso seguito ad una presa di possesso, che rende irrilevante … il successivo abbandono del bene” (Cass. 15530/2017, cit.).

La legge prevede due ipotesi di accettazione tacita dell’eredità anche qualora il chiamato non sia in possesso di alcun bene ereditario.

La prima è disciplinata dall’art. 487, commi 1 e 2, del c.c., a norma del quale il chiamato non in possesso dei beni è considerato erede puro e semplice qualora dichiari di voler accettare con beneficio di inventario ma non compia l’inventario entro i successivi tre mesi.

La seconda è disciplinata invece dall’art. 488 c.c., che statuisce che il chiamato non in possesso dei beni viene considerato erede puro e semplice quando non compie l’inventario entro il termine assegnatogli dal giudice, ai sensi dell’art. 481 c.c., per accettare l’eredità.

Secondo la giurisprudenza costituisce inoltre accettazione tacita dell’eredità il pagamento, da parte del chiamato, dei debiti lasciati dal de cuius, a condizione però che “sia fornita la prova che il pagamento sia stato effettuato con danaro prelevato dall’asse ereditario, mentre nel caso in cui il chiamato adempia … con denaro proprio, … non può ritenersi per ciò stesso che abbia accettato l’eredità” (Cass. 4320/2018).

La pronuncia da ultimo citata evidenzia, altresì, che qualora il conto corrente da cui vengono prelevate le somme fosse intestato non solo al de cuius ma anche al chiamato, è indispensabile accertare chi avesse versato i fondi utilizzati per il pagamento di cui di discute: il chiamato, contitolare del conto, potrebbe infatti aver prelevato tali somme “anche quale mero cointestatario” del conto, come tale “titolare di poteri disgiunti verso la banca del tutto avulsi rispetto al contesto dell’apertura della successione”.

Ulteriormente, Cass. 8980/2017 evidenzia come sia pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che “la voltura catastale, a differenza di atti aventi rilievo meramente fiscale, … costituisce atto di accettazione tacita dell’eredità”. Peraltro, “gli effetti della voltura … si producono solo in favore di chi vi provveda”, essendo invece necessario riscontrare, per gli altri eredi, “se vi fosse stata o meno la spendita del nome in occasione della presentazione della denuncia di variazione catastale”, ovvero se il denunciante “avesse agito quale loro mandatario”.

E’ altresì “astrattamente idoneo ad integrare una delle possibili forme di accettazione tacita dell’eredità” il “conferimento della procura a vendere beni ereditari, in quanto atto di contenuto gestorio” (Cass. 20699/2017).

Sempre in via esemplificativa, autorevole dottrina (Capozzi, Successioni e donazioni, IV ed., Milano, 2015, 243) aggiunge, alle ipotesi già enunciate, “la proposta di contratto fatta al terzo ed avente ad oggetto beni ereditari, il conferimento di un mandato a compiere tutti gli atti relativi all’amministrazione di tutti i beni ereditari, il protesto di effetti cambiari rilasciati al defunto da terzi, l’accettazione di somme di pertinenza ereditaria, … la concessione di ipoteca su beni ereditari, … la riscossione di un assegno rilasciato al de cuius in pagamento del suo credito, la riscossione dei canoni di locazione di un bene ereditario”.

Occorre evidenziare, infine, ulteriori ipotesi nelle quali la legge individuaatti dai quali deriva, implicitamente, l’acquisto dell’eredità” (Capozzi, op. cit., 240 e ss.).

Innanzi tutto l’art. 477 c.c. attribuisce tale effetto a “la donazione, la vendita o la cessione”, da parte del chiamato all’eredità, dei propri diritti di successione “a un estraneo o a tutti gli altri chiamati all’eredità o ad alcuno di questi”.

Come osserva correttamente l’autore sopra citato, il concetto di cessione comprende “ogni genere di negozio dispositivo” diverso dalla donazione e dalla vendita (Capozzi, op. cit., 241).

L’art. 478 c.c., inoltre, prevede che la rinuncia ai diritti di successione comporta accettazione dell’eredità “qualora sia fatta verso corrispettivo o a favore di alcuni soltanto dei chiamati”.

Invero, “la rinuncia verso corrispettivo altro non è se non l’alienazione dei diritti ereditari precedentemente acquisiti, il che non può non implicare la preventiva accettazione da parte dell’alienante … Con riguardo, poi, alla rinuncia fatta in favore soltanto di alcuni dei chiamati, essa finisce con il tradursi nella sostanza in una vendita o in una donazione, a seconda che sia stata posta in essere a titolo oneroso oppure gratuito o liberale” (così Capozzi, op. cit., 241).

 

Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari

 

Il presente articolo è stato pubblicato su La Previdenza.it e su Milanofinanza.it