Con ordinanza n. 24163/2019, depositata il 27 settembre 2019, la Suprema Corte ha cassato una pronuncia di appello che aveva escluso la responsabilità del Ministero della salute per una trasfusione avvenuta nel 1965.
Secondo il giudice di secondo grado l’Amministrazione non poteva rispondere del contagio in quanto negli anni ’60 le conoscenze scientifiche “non erano di tale univocità da integrare una prova sufficiente della responsabilità dello stesso rispetto alle emotrasfusioni”.
La Corte di legittimità non ha condiviso questa conclusione.
Invero, il Ministero della salute, in base ad una pluralità di fonti normative, è “tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine (anche) alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, e risponde ex art. 2043 c.c., per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi”.
La Corte ha osservato altresì che la prima di queste fonti risale “addirittura al 1958, atteso che già la L. n. 296 del 1958, art. 1 attribuisce al Ministero il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica, di sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche al relativo coordinamento, nonché ad emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari”.
Sul punto, la Corte ha ribadito quanto già evidenziato in numerosi altri suoi precedenti, ovvero che il quadro normativo sopra citato impone al Ministero di tenere “un comportamento attivo di vigilanza, sicurezza ed attivo controllo in ordine all’effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio di emotrasfusione di quanto ad esse prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto … non potendo invero considerarsi esaustiva delle incombenze alla medesima in materia attribuite la quand’anche assolta mera attività di normazione (emanazione di decreti, circolari, ecc.)”.
In conclusione, poiché “la colpa della P. A. rimane integrata anche in ragione della violazione dei dovuti comportamenti di vigilanza e controllo imposti dalle fonti normative più sopra richiamate”, qualora nel caso concreto si concretizzi il rischio che la norma violata intendeva prevenire, e quindi si verifichi il contagio da sangue infetto, la responsabilità dell’Amministrazione può ritenersi presuntivamente provata, sarà pertanto quest’ultima a dover allegare le ragioni per le quali, invece, tale responsabilità non ricorra.
La Suprema Corte ha evidenziato inoltre che “dallo stesso quadro normativo in base al quale risultano attribuiti a Ministero poteri di vigilanza e controllo in materia, si evince come fosse già ben noto sin dalla fine degli anni ‘60 – inizi anni ‘70 il rischio di trasmissione di epatite virale” mediante il sangue infetto.
All’epoca, infatti, era possibile “la rilevazione (indiretta) dei virus … mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell’anti-HbcAg”, inoltre “sin dalla metà degli anni ‘60 erano … esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT indicatori della funzionalità epatica – fossero alterati rispetto” a determinati parametri.
La Cassazione ha ribadito, infine, come “nello specificare che il Ministero della salute risponde “anche per il contagio degli altri due virus” già “a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B”, trattandosi non già di “eventi autonomi e diversi” ma solamente di “forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto”, le Sezioni Unite”, nella sentenza n. 581/2008, “non hanno certamente inteso limitare la rilevanza del fenomeno e la relativa responsabilità alla “data di conoscenza dell’epatite B” … le Sezioni Unite del 2008 hanno per converso sottolineato come si tratti di un “rischio che è antico quanto la necessità delle trasfusioni” …, legittimando la conclusione poi ripetutamente ribadita da questa Corte che il Ministero della salute non può non ritenersi tenuto”, anche anteriormente al 1978, “a controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione delle transaminasi … Né al risultato di delimitazione temporale della responsabilità del Ministero può invero altrimenti pervenirsi … argomentando … dalla verifica se al momento della effettuazione della emotrasfusione individuata come causa della malattia il virus dell’epatite C fosse già conosciuto e qualificato come tale … dall’Organizzazione Mondiale della Sanità”, dovendo altrimenti escludersi la responsabilità dell’Amministrazione.
La Corte ha pertanto cassato la pronuncia impugnata, enunciando il seguente principio di diritto: “In caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, sussiste la responsabilità del Ministero della salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988), atteso che già dalla fine degli anni ‘60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi”.
Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari