Con ordinanza n. 22528/2019, depositata il 10 settembre 2019, la Corte di Cassazione ha stabilito a quali condizioni l’indennizzo disciplinato dalla legge 210/1992 possa essere scomputato dal risarcimento del danno nei confronti del Ministero della salute.
Secondo quanto si rileva nella parte in fatto della pronuncia qui commentata, i giudici di secondo grado avevano compensato l’indennizzo, nonostante “la questione fosse stata introdotta per la prima volta soltanto nel giudizio d’appello ed il Ministero non avesse affatto sollevato una specifica eccezione né avesse formulato in tal senso corrispondenti conclusioni”.
Nella fase di merito, inoltre, “mentre il risarcimento era stato oggetto di quantificazione, l’indennizzo non era stato determinato né era determinabile sulla base degli atti di causa”.
Infine, il Ministero della salute aveva prodotto “i documenti attestanti l’avvenuto pagamento dell’indennizzo … soltanto in sede di comparsa conclusionale del giudizio d’appello”, quindi dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni.
Il danneggiato aveva impugnato la sentenza di secondo grado sotto plurimi profili, alcuni dei quali sono stati accolti dalla Cassazione.
La Suprema Corte ha confermato, innanzi tutto, la legittimità dello scomputo dell’indennizzo, questo nonostante l’art. 1 della L. 238/1997 preveda che l’indennizzo ex lege 210/92 “è cumulabile con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito”.
Secondo la Corte, infatti, nonostante “il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto abbia natura diversa rispetto all’attribuzione indennitaria regolata dalla L. n. 210 del 1992, tuttavia, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele, l’indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno …, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo”.
Dal principio citato emerge con chiarezza, peraltro, che lo scomputo non è automatico.
L’indennizzo “può” essere scomputato, sottolinea la Corte, e solo nella misura in cui vi sia la prova che sia stato “corrisposto” al danneggiato.
La Cassazione ha confermato, quindi, che l’eccezione di compensazione è una “eccezione in senso lato”, come tale proponibile “anche in grado d’appello e, addirittura, rilevabile d’ufficio”, ma solo “in presenza di materiale probatorio che lo consenta”.
Esistono pertanto degli oneri probatori che debbono essere assolti affinché l’indennizzo possa essere concretamente scomputato.
Invero, “fermo restando quanto sopra argomentato in relazione alla natura dell’eccezione di compensazione, resta intatto il principio che è onere di chi la invoca dimostrarne il fondamento, ed in caso di insufficienza di prova, le conseguenze ricadranno sulla parte onerata che resterà tenuta al risarcimento integrale”, prova che l’Amministrazione deve fornire nel rispetto non solo delle regole processuali, ma anche e soprattutto del principio del contraddittorio.
Ne consegue che nel giudizio di appello, così come del resto in quello avanti al Tribunale, “le prove documentali possono essere introdotte, salva la valutazione delle preclusioni, fino a quando la trattazione orale della causa non sia stata chiusa, con la conseguenza che la produzione attuata solo al momento del deposito della comparsa conclusionale si rivela tardiva e, quindi, inammissibile”.
Ne consegue che, nel caso di specie, la Corte territoriale non poteva tenere conto del documento depositato dal Ministero in allegato alla comparsa conclusionale del giudizio d’appello.
Non avendo l’Amministrazione ottemperato ai propri oneri probatori, i giudici di secondo grado non avrebbero, quindi, dovuto scomputare l’indennizzo, invero la prova della sua percezione non era stata fornita dal Ministero.
Non solo.
La Cassazione ha osservato che la mancata produzione, da parte del Ministero della salute, dei documenti necessari a comprovare le somme liquidate al danneggiato ex lege 210/1992 “non potrebbe essere colmata con il giudizio di rinvio che prevede “un’istruzione chiusa” e che, pertanto, non consentirebbe l’introduzione di elementi di fatto nuovi e diversi da quelli già prospettati nei precedenti gradi del giudizio”.
La sentenza impugnata è stata pertanto cassata “sulla base dei seguenti principi di diritto:
– “le prove documentali possono essere introdotte, salva la valutazione delle preclusioni alla luce di quanto disposto dall’art. 345 c.p.c., fino a quando la trattazione orale della causa non sia stata chiusa, con la conseguenza che la produzione attuata solo al momento del deposito della comparsa conclusionale si rivela tardiva e, quindi, inammissibile”;
– “la compensatio lucri cum damno” tra l’indennizzo corrisposto al danneggiato, ai sensi della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1 e il risarcimento richiesto al Ministero della Sanità per l’omessa adozione di adeguate misure di emovigilanza, integra un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio e proponibile per la prima volta anche in appello: tuttavia, resta intatto il principio che è onere di chi la invoca dimostrarne il fondamento ed, in caso di insufficienza di prova, le conseguenze ricadranno sulla parte onerata che resterà tenuta al risarcimento integrale”.
– “l’inammissibilità della documentazione prodotta tardivamente a sostegno dell’eccezione non può essere colmata in un giudizio di rinvio che prevede “un’istruzione chiusa” e che, pertanto, non consente l’introduzione di elementi di fatto nuovi e diversi da quelli già prospettati nei precedenti gradi del giudizio”.
Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari
Il presente articolo è stato pubblicato su La Previdenza.it e su Milanofinanza.it