Con ordinanza n. 9885/2020, depositata il 26 maggio 2020, la Corte di Cassazione ha evidenziato quali siano gli obblighi cui deve adempiere la struttura sanitaria, qualora le sacche di sangue utilizzate per la trasfusione le vengano fornite da un soggetto terzo qualificato, nel caso di specie un centro AVIS.
La questione era già stata sottoposta alla Suprema Corte la quale, con sentenza n. 7549/2012 aveva cassato la pronuncia con la quale i giudici di secondo grado avevano rigettato la domanda risarcitoria della danneggiata, enunciando il seguente principio di diritto: “Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all’interno della struttura sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all’art. 1176 c.c. nell’esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie”.
In sede di rinvio, la Corte d’appello aveva confermato il rigetto della domanda risarcitoria, ritenendo che la Casa di cura avesse dimostrato “di aver osservato tutte le prescrizioni di legge, vigenti al tempo, relative al controllo della tracciabilità delle sacche di sangue che le erano state fornite dal Centro AVIS di Pompei, corredate da “schede tecniche” relative alla individuazione dei donatori ed alle prove di compatibilità pretrasfusionali”.
Una interpretazione che la Cassazione condivide solo in parte.
I giudici di secondo grado avevano innanzi tutto evidenziato che la struttura sanitaria non aveva l’obbligo di reiterare i controlli sulle sacche già effettuati dal centro trasfusionale.
Una tesi che, in linea di principio, la Suprema Corte reputa corretta.
La struttura sanitaria che si procuri le sacche di sangue da un Centro trasfusionale, quindi da un soggetto dotato di specifica competenza nella raccolta e conservazione delle predette sacche, deve innanzi tutto verificare che il Centro abbia effettuato tutti i controlli prescritti dalla normativa vigente.
La struttura deve inoltre verificare che il Centro si sia conformato ai protocolli sanitari vigenti, incluse le eventuali nuove acquisizioni della comunità scientifica mondiale. Invero, se tali acquisizioni “consentono di pervenire a livelli di conoscenza maggiori e di individuare metodologie e tecnologie che assicurano risultati in precedenza non conseguibili, o garantiscono gradi di certezza nella scoperta e prevenzione delle patologie finora ignote, non vi è alcun dubbio che” le stesse, “venendo ad integrare le “leges artis”, non possano essere disconosciute dall’esercente … la professione sanitaria, il quale -diversamente- verrebbe ad incorrere in un palese difetto di diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2”.
Secondo la Corte la struttura non è invece tenuta “ad applicare metodologie e tecniche di indagine che siano in fase sperimentale o consistano in mere ipotesi di studio e che non siano ancora accreditate presso la comunità degli esperti”.
Infine, la struttura non è tenuta ad effettuare una seconda volta i controlli già correttamente effettuati dal Centro trasfusionale, potendo fare affidamento sulle informazioni trasmesse da un soggetto dotato, in materia, di una specifica e comprovata competenza.
Come osserva correttamente la Cassazione, considerata la complessità del settore trasfusionale e la necessità di evitare eccessivi aggravi economici sulle strutture, si deve concludere che, “salvo che non risulti scontata un certo grado di inaffidabilità o di incertezza dei metodi applicati nella ricerca e negli esami, essendo quindi buona prassi la rinnovazione della indagine chimica o strumentale a conferma dei risultati ottenuti dalla prima verifica -, la struttura sanitaria, pubblica o privata, competente ad eseguire l’intervento chirurgico cruento, deve necessariamente “affidarsi”, per la fornitura del sangue da impiegare nelle trasfusioni, alla distinta struttura sanitaria competente a raccogliere e conservare le sacche di sangue da distribuire agli enti richiedenti”.
Date queste premesse, secondo la Suprema Corte l’errore compiuto dal giudice del rinvio consiste nell’aver individuato come unico comportamento cui era tenuta la struttura sanitaria nel “dovere … di verificare la identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza”, mentre invece avrebbe anche dovuto accertare l’avvenuta effettuazione dei test sul sangue prescritti all’epoca delle trasfusioni (nel caso di specie, la Corte di Appello aveva omesso di verificare l’avvenuta effettuazione, da parte del Centro trasfusionale, della ricerca dell’Antigene Australia).
Per tale motivo la pronuncia impugnata è stata cassata, con statuizione del seguente principio di diritto: “In relazione al danno da contagio di epatite C determinato da trasfusione di sangue infetto, richiesta per la esecuzione di intervento chirurgico, la mancata conoscenza, al tempo dei fatti (1987), del virus HCV, non essendo stati ancora predisposti i markers idonei ad accertare preventivamente il virus, non esonera la Casa di cura privata, che abbia utilizzato sacche di sangue, sebbene consegnate dalla struttura autorizzata prevista dalla L. 14 luglio 1967, n. 592, da responsabilità per inadempimento della prestazione di cura, qualora abbia omesso di verificare, attraverso la documentazione ricevuta, che il fornitore avesse ottemperato agli obblighi di legge, al tempo vigenti, consistenti: a) nella tracciabilità del sangue, mediante identificazione del donatore; b) nella effettuazione degli esami ematochimici -ricerca antigene Australia- diretti ad escludere nel sangue raccolto il virus HBV.
Ove, invece, risulti la prova che tale verifica documentale sia stata compiuta, deve ritenersi che la Casa di cura privata abbia assolto all’onere di diligenza qualificata esigibile ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, in quanto la relazione che, nell’ambito del più generale sistema complesso del servizio sanitario pubblico, si instaura tra i predetti soggetti – qualora non sia ravvisabile uno schema organizzativo riconducibile alla sovraordinazione gerarchica, al controllo o vigilanza, od alla “ausiliarietà” ex art. 1228 c.c., – è regolata dal principio di specializzazione e competenza, in base al quale l’accertamento della esecuzione da parte del fornitore (cui la Casa di cura è tenuta esclusivamente a rivolgersi) dei controlli prescritti dalle legge vigenti, esonera la Casa di cura dalla rinnovazione di tali esami sulle sacche ricevute, dovendo considerarsi conforme alla misura di diligenza richiesta, detta verifica documentale“.
Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari