L’articolo 3 del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2021, n. 76, recante «Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici», contiene una norma che disciplina la responsabilità penale in caso di danni dovuti a somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2 (in seguito vaccino Covid-19).
La predetta disposizione, rubricata “Responsabilità penale da somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2”, così dispone: “Per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV -2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all’art. 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”.
L’introduzione di questa causa di esclusione della punibilità potrebbe indurre a ritenere che eventuali danni da vaccino-Covid 19 siano privi di tutela.
A nostro giudizio tale conclusione non è corretta.
La norma qui in esame esclude la responsabilità penale solo qualora il soggetto somministrante rispetti le indicazioni contenute nel provvedimento che autorizza l’immissione in commercio del farmaco.
Illeciti penali potrebbero quindi configurarsi, quanto meno, qualora tali indicazioni non vengano rispettate.
Nemmeno può escludersi, inoltre, che a seguito della somministrazione possano configurarsi inadempimenti civilisticamente rilevanti, in tali ipotesi il danneggiato potrebbe promuovere una azione risarcitoria avanti al tribunale civile.
In ogni caso, una adeguata e probabilmente anche più cospicua tutela può essere garantita mediante uno strumento indennitario, ovvero l’indennizzo disciplinato dalla legge 210/1992.
L’articolo 1, comma 1, della predetta legge stabilisce che “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”.
Tra i vaccini previsti dalla disposizione sopra citata è certamente compreso anche il vaccino Covid-19, purché obbligatorio, vincolo al momento imposto solo ad alcune categorie, come ad esempio i medici e gli infermieri.
Come ha più volte osservato la Corte Costituzionale, qualora il trattamento non sia obbligatorio ma solo raccomandato, tale ultima natura esclude, “in virtù del tenore testuale del … art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992, il diritto all’indennizzo in capo ai soggetti che lamentino, quale conseguenza della stessa, lesioni o infermità di carattere irreversibile” (da ultimo, sentenza n. 118/2020).
Questo però non significa che al vaccino raccomandato debba negarsi tutela.
Secondo la Corte non vi è dubbio, invero, che “in presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale … si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli” (sentenza n. 118/2020, cit.).
Ne consegue che non vi è “ragione di differenziare … il caso […] in cui il trattamento sanitario sia imposto per legge da quello […] in cui esso sia, in base a una legge, promosso dalla pubblica autorità”, in caso contrario si “riserverebbe […] a coloro che sono stati indotti a tenere un comportamento di utilità generale per ragioni di solidarietà sociale un trattamento deteriore rispetto a quello che vale a favore di quanti hanno agito in forza della minaccia di una sanzione” (sentenza n. 423/2000).
Secondo la Corte “la ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo non risiede … nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio: riposa, piuttosto, sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale. Per questo, la mancata previsione del diritto all’indennizzo in caso di patologie irreversibili derivanti da determinate vaccinazioni raccomandate si risolve in una lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost.: perché sono le esigenze di solidarietà costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo (sentenze n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012)” (sentenza n. 118/2020, cit.).
Peraltro, non tutti i vaccini raccomandati sono meritevoli di tutela, infatti “il diritto all’indennizzo non deriva da qualunque generica indicazione di profilassi proveniente dalle autorità pubbliche, a quella vaccinazione relativa, ma solo da specifiche campagne informative svolte da autorità sanitarie e mirate alla tutela della salute, non solo individuale, ma anche collettiva” (sentenza n. 118/2020, cit.).
In tutti i casi in cui ricorrevano questi presupposti, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 210/1992, nella parte in cui non prevedeva il diritto all’indennizzo per coloro che si erano sottoposti ad un vaccino raccomandato per la tutela anche della salute pubblica, come i danneggiati a seguito di vaccinazione:
– antipoliomielitica, nel periodo di vigenza della legge 30 luglio 1959, n. 695 (sentenza n. 27/1998);
– antiepatite B, a partire dall’anno 1983 (sentenza n. 423/2000);
– contro il morbillo, la parotite e la rosolia (sentenza n. 107/2012);
– antinfluenzale (sentenza n. 268/2017);
– contro il contagio dal virus dell’epatite A (sentenza n. 118/2020).
Non ci pare quindi possa dubitarsi che il vaccino Covid-19 costituisca un trattamento raccomandato dalle autorità pubbliche, a tutela anche della salute collettiva.
Basti pensare, a tal proposito, che questo vaccino è stato somministrato in attuazione di un piano sanitario previsto per legge (si veda l’art. 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178).
La Consulta, peraltro, è consolidata anche nell’affermare che “il mero riscontro della natura raccomandata della vaccinazione, per le cui conseguenze dannose si domandi indennizzo, non consente ai giudici comuni di estendere automaticamente a tale fattispecie la pur comune ratio posta a base delle precedenti, parziali, declaratorie di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992” (sent. n. 118/2020 cit.).
Infatti, i dispositivi di accoglimento sopra citati si riferiscono unicamente ad una determinata vaccinazione, e non possono essere estesi ad altri casi di vaccini raccomandati a tutela anche della salute collettiva (così ad esempio la sentenza n. 268/2017).
Pertanto, il giudice che riscontri un danno da vaccino, raccomandato anche nell’interesse della collettività, non può riconoscere al danneggiato il diritto all’indennizzo sulla base di una interpretazione adeguatrice dell’articolo 1, comma 1, della Legge 210/1992, ma deve sottoporre la questione alla Consulta, unica legittimata ad accertare se sussistano i requisiti per la declaratoria di incostituzionalità della norma citata, previa “verifica … circa la corrispondenza di tali raccomandazioni ai peculiari caratteri che, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, finalizzano il trattamento sanitario raccomandato al singolo alla più ampia tutela della salute come interesse della collettività, ed impongono, dunque, una estensione della portata normativa della disposizione censurata” (sentenza n. 118/2020, cit.).
Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari