Con ordinanza n. 11228, pubblicata il 27 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato, tra l’altro, la tematica della decorrenza del diritto al risarcimento dei danni subiti, in proprio, dal familiare di un soggetto deceduto a causa delle complicazioni di una patologia contratta a seguito di trasfusioni di sangue subite in struttura pubblica.
La Suprema Corte ha innanzi tutto richiamato il principio applicabile al diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto patologie conseguenti ad emotrasfusione con sangue infetto per fatto doloso o colposo di un terzo, diritto che inizia a decorrere dal giorno in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto delle informazioni in possesso del danneggiato e della diffusione delle conoscenze scientifiche.
La Corte ribadisce che tale giorno va, di norma, identificato con quello di presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992, salvo che la controparte dimostri che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, alla stregua dei parametri succitati, l’esistenza della malattia e la sua riconducibilità causale alla trasfusione, anche per mezzo di presunzioni semplici.
Con la pronuncia qui commentata la Cassazione estende la portata di questo principio anche al danno, c.d. parentale, ovvero a quello subito dai familiari del soggetto contagiato, deceduto a causa, o per concausa, dell’aggravarsi della patologia post-trasfusionale.
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento da ultimo citato decorre, pertanto, dal giorno in cui il decesso venga percepito – o possa essere percepito, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto delle informazioni in possesso del danneggiato e della diffusione delle conoscenze scientifiche – quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, dovendo farsi riferimento, non al momento della verificazione materiale dell’evento di danno, bensì al momento della conoscibilità del danno inteso nella sua dimensione giuridica. Anche il termine di prescrizione del diritto al risarcimento di tali danni va dunque fissato, di regola, alla data di presentazione della domanda amministrativa di indennizzo, non potendo esso coincidere con la data del decesso della vittima o con quella (eventualmente successiva a quest’ultima, ma antecedente a quella della domanda amministrativa) della conoscenza, da parte dei congiunti, della patologia da cui era affetta la vittima medesima, se non sono stati forniti dalla controparte elementi certi tali da far ritenere che essi fossero in possesso di informazioni idonee a consentire il collegamento causale della patologia esiziale alla trasfusione.
Ne consegue che il giorno di decorrenza della prescrizione andrà, di norma, identificato con quello di presentazione della domanda di assegno una tantum o di reversibilità, ai sensi dell’art. 2, comma 3 della legge n. 210/1992.
Questo a meno che la controparte non dimostri, anche mediante presunzioni semplici, che il familiare era consapevole della rapportabilità causale del decesso del proprio parente alla trasfusione precedentemente subita prima di aver domandato i benefici attribuitigli dalla legge n. 210/1992.
La Corte evidenzia, ulteriormente, come tale principio costituisca un orientamento ormai consolidato – non scalfito dal precedente di cui a Cass. n. 19568/2023 (che, nell’ipotesi di dedotta responsabilità del Ministero della Salute per i danni invocati iure proprio dai congiunti della vittima deceduta a causa del contagio da trasfusione di sangue infetto, ha individuato il momento della decorrenza del termine di prescrizione del diritto risarcitorio alla data della morte della vittima medesima: in proposito, cfr. le osservazioni già compiute, al riguardo, da Cass. n. 34570/2023 …).
Nel caso deciso dalla Suprema Corte il paziente era deceduto a seguito di una patologia tumorale, il linfoma non Hodgkin di tipo B, di cui era stato però accertato il collegamento causale con l’epatite contratta dal paziente medesimo a seguito delle trasfusioni.
Ebbene, la Corte di Appello aveva dichiarato prescritto i diritti fatti valere dai familiari iure proprio senza aver accertato che al momento della pretesa decorrenza dei diritti citati i parenti del paziente, già a quell’epoca, avessero apprezzato (o potuto apprezzare con l’ordinaria diligenza ed in base alle informazioni possedute e alla diffusione delle conoscenze scientifiche) la riconducibilità causale della patologia tumorale (e non solo dell’epatite) alle trasfusioni con sangue infetto.
I giudici di secondo grado si erano infatti limitati ad evidenziare che i familiari già a quella data erano in grado di percepire la rapportabilità causale della (sola) epatite alle trasfusioni compiute da Gi.An. nel 1978.
Per questo motivo la sentenza è stata cassata e rinviata al giudice di merito per un nuovo esame.
Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari