L’art. 33 comma 2 del decreto legislativo n. 206 del 6 settembre 2005 (c.d. codice del consumo) stabilisce che si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole, contenute in un contratto tra un professionista e un consumatore, che attribuiscono la competenza per le controversie inerenti a questo contratto ad un giudice diverso da quello “di residenza o domicilio elettivo del consumatore”.
Considerata la debolezza contrattuale del consumatore rispetto alla propria controparte, la legge gli consentei di radicare le cause relative al contratto concluso con il professionista davanti al giudice a lui più vicino.
Poiché il rapporto tra le strutture sanitarie e i pazienti è da tempo considerato di natura contrattuale (v. da ultimo Cass. sez. un. 577/08), si pone il problema se il malato possa citare l’ospedale davanti al tribunale del luogo dove risiede o se debba invece adire quello nella cui circoscrizione si trova l’azienda sanitaria.
Con ordinanza n. 8093 del 2 aprile 2009 (pubblicata in Resp. civ. prev. 2009, 1283) la Corte di cassazione ha stabilito che quando la struttura è pubblica ovvero convenzionata con il Servizio Sanitario, la causa deve essere proposta davanti al tribunale nella cui circoscrizione si trova la sede dell’ospedale.
Secondo la Corte, infatti, in questo caso al paziente non può essere attribuita la qualifica di “consumatore”; inoltre l’ospedale non può essere considerato un “professionista”.
Il servizio sanitario fornito dagli ospedali pubblici o convenzionati viene infatti erogato “attraverso una organizzazione imperniata sul principio di territorialità, cioè nel senso che vi sono tante articolazioni della complessiva organizzazione preposte ognuna ad un certo territorio. La fruizione del servizio, invece, non è, però, necessariamente collegata alla residenza dell’utente se non in via tendenziale, essendovi … la possibilità di beneficiare del servizio … in una qualsiasi articolazione dell’organizzazione”. Ne consegue che l’utente, quando si rivolge ad un ospedale situato al di fuori del proprio comune di residenza, si pone “in una posizione che non è apparentabile a quella del consumatore”: soprattutto perché la decisione di farsi curare lontano dal proprio domicilio è frutto di una sua “libera scelta”. Secondo la Corte è pertanto “pienamente ragionevole che la vicenda del contenzioso che nasce dall’erogazione del servizio non sia soggetta al foro del consumatore”.
La Cassazione aggiunge che il foro del consumatore non sarebbe comunque applicabile, perché le aziende ospedaliere pubbliche non sono qualificabili come “professionisti”. Le strutture pubbliche devono infatti erogare la prestazione anche quando, così facendo, subiscono perdite; l’attività professionale è invece imprescindibilmente finalizzata alla percezione di un compenso.
Analoga conclusione vale anche per le strutture private convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale.
Se è infatti vero che la casa di cura convenzionata “si presenta come un’azienda diretta a perseguire un utile”, tale utile viene in rilievo solo quando “essa stipula la convenzione con gli organismi di diritto pubblico … mentre, una volta instaurata la convenzione, la fornitura del servizio all’utente avviene con modalità del tutto identiche a quelle seguite dalla struttura pubblica”.
Secondo la Corte, quindi, il paziente potrà citare l’ospedale davanti al tribunale nella cui circoscrizione egli risiede solo quando la struttura sanitaria sia:
a) convenzionata, ma la richiesta di risarcimento si riferisca a prestazioni aggiuntive rispetto a quelle rimborsate all’ospedale dal Servizio Sanitario Nazionale;
b) privata e non convenzionata.
Il presupposto comune a queste due ipotesi è costituito dalla circostanza che in entrambi i casi il costo della prestazione è a carico dell’utente.
Alberto Cappellaro